
“Le parole non descrivono ciò che esiste, lo creano”. [1]
Nel descrivere dieci anni di lavoro nell’ambito della comunicazione sociale dedicati a raccontare il mondo di chi cresce “fuori famiglia” [2] (in comunità, affido o casa-famiglia) e in particolare il delicato momento della transizione all’autonomia al compimento della maggiore età [2], è necessario fare alcune premesse:
- Il linguaggio cambia, si evolve. Basti pensare all’attuale vivacità del dibattito su alcuni temi sensibili[3]: politically correct, cancel culture, uso dello schwa, inclusione e accessibilità…
- Ad ogni causa sociale corrisponde anche una questione di narrazione e linguaggio. Lo vediamo da tempo anche su altri temi quali disabilità, immigrazione, orientamento di genere, salute mentale… Cresce lo sforzo di intellettuali, attivisti/e, scrittori/scrittrici e influencer per rendere il linguaggio sempre più inclusivo e rappresentativo di tutti i gruppi sociali, spesso grazie alle stesse persone che quella problematica la vivono in prima persona.
- Non esisteva un “prima” in Italia nella comunicazione sul tema dei care leavers e del leaving care, non avevamo una bibliografia specifica di riferimento in Italia a cui fare riferimento, tanto che abbiamo scelto di guardare al panorama internazionale e adottare una definizione anglofona, appunto “care leavers”.
Insomma, si è trattato di costruire insieme un nuovo alfabeto.

Detto questo, cosa abbiamo cercato di fare?
Una prima azione è stata quella di sensibilizzare e creare cultura intorno a queste tematiche. Non abbiamo cercato semplice visibilità ma un posizionamento nel panorama sociale, culturale, politico e mediatico affermandoci come fonte autorevole e affidabile.
Questo ha significato trasparenza e condivisione con gli stakeholders (volontari e volontarie, collaboratori e collaboratrici…), apertura al dialogo e al confronto con i professionisti del settore (educatori/educatrici, assistenti sociali, psicologi/psicologhe ma anche giornalisti/e e professionisti/e della comunicazione) e capacità di interlocuzione con le istituzioni e la politica.
Il passaggio più importante è stato poi quello di costruire una narrazione che coinvolgesse gli stessi beneficiari, i ragazzi e le ragazze care leavers.
Anche questa è sicuramente un’operazione non priva di una buona dose di paternalismo, appropriazione e rischio di retorica.
È importante compierla essendo consapevoli della nostra “posizione di privilegio” e dei nostri bias/pregiudizi, della necessità di decolonizzare il nostro sguardo.
Come professionisti abbiamo cercato di metterci a servizio della causa con le nostre competenze, non volendoci però sostituire allo sguardo dei veri protagonisti: come canta Cristicchi “basta mettersi al fianco invece di stare al centro”.
Continua a leggere