“Prima o poi ti porto in carcere!”.
Da un po’di tempo Viola* me lo diceva e, anche se poteva suonare come una minaccia, per me era un auspicio.
Il Carcere di Rimini, per tutti i “Casetti”, ospita 163 persone, 47 uomini in più di quelli che potrebbe accogliere.
Ha evidenziato Ilaria Pruccoli, ex Garante dei detenuti di Rimini, nella sua ultima relazione a marzo 2019: “Ciò che risulta incomprensibile, incoerente, è che a tale aumento della popolazione carceraria, non corrisponde un aumento dei reati in Italia”.
C’è chi desidera sedere nei tavoli che contano e occupare posizioni di potere, io desideravo fortemente fare un’esperienza nel carcere con i detenuti adulti.
Mi sono a lungo chiesta il perché di questa attesa.
Perché provassi un’emozione così forte, quasi un batticuore da primo appuntamento.
Credo, citando David Grossman, che sia la ferita ad attrarmi e che cercassi un coltello con il quale frugare dentro me stessa.
Non ho una foto che racconti l’incontro, ma ho impressi nitidi nella mente quindici volti, quindici voci, quindici storie.
Loro hanno scelto di incontrarmi in un luogo dove a nessuno fa piacere mostrarsi.
Come potevo ricambiare?
Ci ho pensato a lungo, e ho deciso di restituire loro quella fiducia raccontando (forse per la prima volta) di me, della mia storia, della mia ferita.
Ecco cosa mi ha consegnato l’esperienza del carcere: la possibilità di inabissarmi nelle profondità di me stessa.
Una verità nuda e cruda. Senza fronzoli, senza giri di parole.
Dovevo scendere da quella cattedra da cui corro il rischio di ergermi.
Nel luogo che per antonomasia priva ciascuno della libertà, io ho sperimentato tra me e loro la possibilità di abbassare le difese. E non sentirci magari totalmente liberi, ma almeno noi stessi.
Perché abbiamo tutti bisogno di guardarci dentro senza compiacimento, in maniera onesta.