Ragazzi ribelli, devianti, ragazzi di strada, bulli, delinquenti. Per don Claudio Burgio semplicemente ragazzi. Ragazzi a cui ha donato la sua vita: a partire dal 1996, quando ha fatto ingresso per la prima volta al Carcere minorile Beccaria di Milano. Per poi arrivare a fondare, nel 2000, l’associazione Kayros che gestisce servizi di accoglienza per minorenni e neomaggiorenni in difficoltà.
Incontriamo don Claudio lo scorso 10 marzo a Bologna, durante l’assemblea nazionale dei soci di Agevolando.
Com’è stato il tuo primo impatto con il mondo dei ragazzi del Beccaria?
Un impatto ovviamente difficile, perché ogni incontro contiene il prefisso “in” per indicare lo stare insieme, la condivisione ma c’è anche un “contro”. Il primo messaggio che i ragazzi mi rivolgono è quasi sempre una provocazione. Ma non dimentichiamo che nella parola provocazione c’è anche l’idea di vocazione, di chiamata. Una chiamata “pro” e quindi a vantaggio di. Con le loro parole dure e i loro comportamenti difficili, i ragazzi che ogni giorno incontro mi provocano ma al tempo stesso mi chiamano, cercano una relazione. L’importante è andare oltre quell’atteggiamento, quel primo impatto.
Qual è la filosofia delle comunità di accoglienza Kayros che tu hai fondato?
Il nostro tentativo è quello di puntare più sulla libertà che sulle regole. Una scommessa che ovviamente non sempre riesce… Ma vorremmo offrire ai ragazzi la possibilità di scommettere sul proprio talento e allargare il loro orizzonte, lo spazio delle possibilità. I ragazzi non rimarranno in comunità per sempre, la vera sfida li attende fuori. È a questo che dobbiamo prepararli, prima di ogni cosa.
Come accettare anche la fragilità e il fallimento che in qualche modo caratterizzano sempre la relazione educativa?
All’inizio quasi sempre i ragazzi ti usano. Ma ho capito che è necessario anche lasciarsi sfruttare e tradire. Ognuno di noi adulti ha il suo equilibrio, i suoi affetti. Nella nostra libertà possiamo tollerare quel tradimento, senza averne paura. Penso alla storia di Monsef e Tarik, due ragazzi accolti nella mia comunità che hanno scelto di partire per la Siria e diventare jihadisti. Io non ho potuto impedire la loro scelta, ma spero che in loro qualcosa sia comunque rimasto. Potevo vivere come un tradimento la loro partenza, ma so che il nostro rapporto è stato comunque vero e questo nessuno potrà togliercelo. Spesso più che una guerra di religione o una difficoltà di integrazione, il vero problema di questi ragazzi è l’identità. Non hanno chiaro chi sono e cercano risposte forti, è importante invece scegliere le persone giuste con cui stare, di cui fidarsi. Io credo che in fondo il momento in cui siamo più fragili e in cui veniamo traditi è il momento in cui davvero certifichiamo il nostro amore.
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